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ELEMENTI DI PEDAGOGIA PRIMITIVA

ELEMENTI DI PEDAGOGIA PRIMITIVA
di Massimo Mondini
Circa 1000 anni fa, all’alba, in prossimità di una costa in Normandia, l’erba coperta di fredda brina è spazzata da un vento gelido; i ragazzini del villaggio, sotto l’occhio vigile del maestro, si affrontano negli esercizi di lotta; al tramonto, dopo la giornata di pesca e di caccia, saranno gli adulti a dar vita all’antico rito della Gouren, la lotta bretone. A distanza di varie migliaia di chilometri sta avvenendo qualcosa di molto simile: un cerchio tracciato sulla sabbia entro il quale rotolarsi, afferrarsi e far capriole ma siamo in un villaggio in Turchia ed il rito, forse ancora più antico, non è simile solo nella sostanza ma anche nel nome, la lotta tradizionale turca si chiama infatti Gures. E così in tutto il resto del pianeta ogni civiltà possiede la sua forma di lotta tradizionale… sarei quasi tentato di connotarla come “lotta educativa” ma risulterebbe una brutta tautologia: la lotta di questo tipo è educazione; rappresenta una delle strade più antiche ed efficaci per la formazione dell’individuo e del gruppo. Gli Islandesi praticano la Glima, spesso a torso nudo nella neve, gli Svizzeri parlano con orgoglio della loro Schwingen come dello sport nazionale, i Sardi stanno riscoprendo “s’istrumpa” e i Gallesi la Cornwall. L’elenco potrebbe continuare fino a coprire praticamente l’intero pianeta: quasi tutte le popolazioni, indipendentemente dalla loro ubicazione e dalle caratteristiche socioculturali, hanno tramandato per millenni la pratica di una forma di lotta “etnica” con caratteristiche ben precise, la maggior parte delle quali comuni a tutte. Nel microcosmo di un villaggio, l’educazione dei ragazzi era tenuta in massima considerazione e quindi affidata ai membri più saggi e più capaci del gruppo: in molte culture non vi erano figure deputate specificatamente all’educazione in quanto ogni membro del clan era tenuto a fare la sua parte insegnando ciò che poteva o comunque rendendosi utile nella tutela e nell’accudire i bambini. In ogni caso la lotta ha sempre avuto un ruolo di primissimo piano nel processo formativo dei bambini e non a caso. Imparare a lottare “costringe” l’individuo a relazionarsi con le altre persone in maniera molto diretta: si parte proprio dalla materia; le prese sulla pelle, il contatto tra i corpi, il dover gestire l’azione dinamica delle spinte e delle trazioni di un’altra persona sul nostro corpo. Si impara a riconoscere le persone dalla densità dei loro tessuti, dal ritmo del loro respiro e dalle loro movenze. Si impara soprattutto a non avere paura delle persone, a relazionarsi agli altri con tranquillità e sicurezza, a divenire esseri sociali in tutto e per tutto. In società più complesse e stratificate la lotta ebbe altrettanto valore: nella cultura ellenica, sono molti i filosofi famosi che ne elogiano le proprietà: sia Platone che Senofonte, ad esempio, citano la lotta come strumento di Kalogathia, l’educazione sincrona di mente e corpo, alla quale si deve prestare la massima cura. Testimonianze analoghe compaiono antecedentemente anche nelle civiltà Mesopotamiche ed in quella Egizia. In tali ambiti, gli stili divennero tecnicamente più raffinati e gli intenti pedagogici si esplicitarono e si conformarono alle esigenze della vita del luogo: il precettore, mentre insegna le tecniche, tramanda anche una filosofia ed una serie di strategie applicabili alla vita quotidiana. Tra tutti i principi tramandati domina quello della Mêtis (intelligenza astuta) da contrapporre all’uso indiscriminato e brutale della forza fisica. Naturalmente anche le forme di lotta di altre popolazioni erano pregne di significati analoghi ma la minor predisposizione all’astrazione e alla retorica di queste, faceva sì che la trasmissione avvenisse esclusivamente, o quasi, attraverso l’esempio e la pratica. All’interno nostro modello di pensiero tendiamo a sottovalutare le forme di trasmissione culturale prive di una ben definita struttura teorica o comunque di schemi precisi; in altre culture, non esistendo un modello di riferimento consolidato, gran parte della validità dell’insegnamento era lasciata alla creatività, al talento, ed alla capacità di improvvisazione dell’insegnante. Ovunque questo tipo di lotta fosse praticata, in un villaggio di sanguinari predoni nomadi o nella più raffinata palestra di asceti Ateniesi, possedeva lo stesso insieme di caratteristiche tecniche e attitudinali, tra le quali spicca l’assoluta proibizione di arrecare danno o anche solo causare dolore all’avversario. Questo rappresenta un insegnamento di inestimabile valore: nel combattimento, che si può intendere come estremo atto di confronto e scontro tra due persone, esse si affrontano nel pieno rispetto dell’incolumità e dell’integrità del prossimo. Ne emerge un profondo senso di rispetto e di “paritarietà relazionale” difficilmente sviluppabile con altri metodi.Durante il ‘900, probabilmente a causa delle forti variazioni nel tessuto sociale, nelle correnti politiche e nel comune “sentire” delle popolazioni Europee e mondiali, la lotta ed altre forme di cultura tradizionale subirono un forte decremento a favore di sistemi pedagogici più schematici e del fenomeno sport che, pur essendo foriero di valori positivi, tende a limitare l’educazione e l’espressione fisica al confronto agonistico e quindi alla ricerca del risultato-vittoria. Ma è proprio grazie al mondo dello sport e dell’agonismo che si sono tramandate fino ad oggi due bellissime forme di lotta tradizionale: la lotta olimpica ed il judo. Attualmente sono molti i genitori che, intuendone istintivamente il grande potenziale educativo intrinseco, incoraggiano i figli alla pratica di tali discipline. Alla luce di quanto esposto tale scelta appare più che plausibile; è importante però rammentare che l’approccio agonistico-sportivo a tali discipline ne ha condizionato l’evoluzione al punto da diminuirne drasticamente il valore formativo. Da un punto di vista dell’educazione corporea, l’esasperazione dell’agonismo ha favorito la ricerca del massimo sviluppo della forza fisica al posto della sensibilità e delle abilità percettive del movimento, e ciò condiziona ovviamente anche il bagaglio tecnico degli atleti. Inoltre il confronto agonistico crea una netta distinzione tra chi vince e chi perde e questo è molto lontano dallo spirito originario della lotta: basti pensare che, nei tornei di Gures, non viene mai applaudito il vincitore ma, al termine dell’incontro, risuona solamente un applauso finale per entrambi i contendenti come riconoscimento per il coraggio e la tecnica dimostrate. In base alla mia esperienza posso affermare che sono comunque molti i maestri di Judo e di Lotta che riescono a tramandare i valori originari, senza lasciarsi troppo condizionare dagli aspetti peggiori dell’agonismo e che, anzi, insegnano ai ragazzi a vivere l’agonismo come un sereno momento di confronto e di scambio nel quale oltre a ricercare la vittoria su un avversario si ha l’occasione per valutare la propria condizione e la propria crescita. Il maestro Jigoro Kano, inventore del Judo, espresse due concetti a tal proposito che affascinarono, a suo tempo, anche lo stesso De Coubertin: “Miglior impiego dell’energia” da intendersi come educazione all’intelligenza corporea e mentale, più o meno come la mêtis degli Ateniesi, e “Prosperità e mutuo benessere” in palese contrapposizione al modello culturale della soprafazione e del conflitto che tanto danno ha fatto nel ‘900. Allenatori, istruttori e maestri che riescono a comunicare questi concetti, attraverso la pratica fisica quotidiana, forniscono ai loro allievi, giovani e meno giovani, uno strumento utile per coordinare ed armonizzare le energie e le pulsioni che, come esseri umani, ci portiamo dentro. In Brasile sono migliaia le storie di ragazzini usciti dal mondo della delinquenza grazie al maestro di lotta del quartiere ed anche in Italia vi sono molte realtà di questo tipo: una su tutte quella di Padre Mario Loi, un sacerdote di Torino che allontana i ragazzi dalla vita di strada attraverso la pratica del Sambo (lotta di matrice Russa). Possiamo quindi osservare come, nonostante le molteplici variazioni che il nostro tessuto sociale ha subito nei secoli, il nostro essere psicofisico risponda ancora positivamente a stimoli antichi che riescono a temperare ed integrare gli impulsi primordiali e le esigenze della vita sociale.